Pil:
Prodotto interno lordo. Massì, quel sistema che misura il rendimento
dell’attività economica.
Viene
inteso come il valore complessivo dei beni e servizi, destinati a usi
finali, prodotti all’interno di un Paese in un definito intervallo
di tempo.
Oddio,
non proprio se si prende la formula keynesiana: Y=C+G+(I+S)+X.
Dove
Y è il Pil, in Italia nel 2009 = 1.596.000.000.000 euro
C,
la spesa privata
G,
la spesa pubblica
I,
la spesa per investimenti delle imprese
S,
la spesa per le scorte delle imprese
X,
il saldo commerciale.
Altro
che misura della produzione; misura invece del consumo. A esser
pignoli non è nemmeno un prodotto bensì una somma, seppur
algebrica, fatta di + e -.
Guistappunto,
domanda aggregata.
Disaggregata
mostra i fatti: fanno il 60 per cento circa quelli della C; gli
altri, i GIS circa il 39 per cento; agli X tocca più o meno l’1
per cento.
Tal
misuratore certifica il maggior contributo fornito dai consumatori
alla generazione della ricchezza, vieppiù il carico di
responsabilità assunto per la crescita economica del Paese.
La
prova del nove: quando i consumatori, quelli che fanno la spesa
privata, hanno redditi adeguati a generare l’ormai consueto 60 per
cento di quel Pil, gli altri, sollecitati da cotanto fare, faranno il
resto.
Quando
invece, e siamo all’oggi, quei redditi risultano insufficienti e
viene a mancare tal contributo, resta l’invenduto. I produttori
visto l’andazzo tirano i remi in barca, fanno fatica a investire
per nuovamente produrre, anche ad attrezzare scorte per magazzini già
pieni. Per gli improvvidi della spesa pubblica, quando si riducono le
entrate fiscali di quelli di prima e si tenta di ridurre questa spesa
per ridurre il debito dello Stato, faranno anch’essi meno Pil.
Seppoi
si sbircia il Pil, come somma delle remunerazioni di tutti i fattori
impegnati nel processo produttivo, emergono fatti che non ti aspetti.
A
chi ha redditi acconci, pur spesi per rifocillarsi di tutto e di più,
resta ancora il resto; risparmio che mette in cassa sottraendolo alla
spesa complessiva. Se le imprese, per risparmiare, retribuiscono chi
ha lavorato per produrre beni con redditi che non fanno tutta la
spesa che serve, inducono quegli impresari a risparmiare pure la
spesa per gli investimenti che fanno nuovamente produrre. A risparmio
si somma risparmio, alla spesa invenduta si sommano invendute scorte:
l’equilibrio tra spesa e reddito salta, viene a ridursi la capacità
del sistema economico di utilizzare per intero le risorse produttive.
Se
per rendere massimo il rendimento del processo economico il valore
prodotto deve poter essere interamente acquistato e così trasformato
in ricchezza, ehm… non ci siamo proprio.
Eggià,
finché la crescita si fa con la spesa ma il tornaconto lo
distribuisce l’impresa; finché, insomma, il meccanismo che
trasferisce quella ricchezza passerà per il remunero della
produzione, verrà a mancare la trippa ai gatti.
La
vecchia regola che ne governa l’allocazione remunera il concorso
fornito dal lavoro dei singoli alla produzione del valore,
riproducendo un vizio: si dà più agli abbienti che già hanno, meno
a chi non ha. I primi spenderanno meno, i secondi tutto, ma poco, e
quel valore verrà svalutato.
Quell’anodina
rappresentazione insomma, impressa nell’acronimo Pil, non lascia
scorgere lo sperequato remunero dei soggetti economici che
diversamente spendono per la crescita.
La
Sil, Spesa interna lorda, sì; ma questa è tutta un'altra storia!
Mauro
Artibani
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